L’arrivo di un figlio è un appuntamento evolutivo di gioia e condivisione per entrambi i membri di una coppia. Nonostante questo, in generale e in particolare nel panorama aziendale italiano, si sente parlare molto di maternità e troppo poco – purtroppo – di paternità e genitorialità. Perché? È un problema di normativa? O di cultura? E quali soluzioni si potrebbero attuare per valorizzare la genitorialità? Ragioniamoci insieme!
Essere neogenitori e lavoratori può presentare degli ostacoli o delle sfide che nascono proprio sul posto del lavoro. In Italia, in ambito lavorativo, vi sono ancora molti stereotipi sulla suddivisione dei ruoli: le donne sono caregiver, gli uomini breadwinner[1].
Nonostante i bias, da parte dei padri lavoratori vi è il desiderio di avere un ruolo più partecipativo all’interno della coppia genitoriale. Tuttavia, questo passa in secondo piano poiché il tema su cui si insiste molto è quasi unicamente quello della maternità.
Eppure, la normativa non si è dimenticata dei padri. Infatti, esiste il congedo di paternità: un periodo di astensione obbligatoria dal lavoro della durata di 5 giorni, con la possibilità di aggiungere facoltativamente un ulteriore giorno, fruibile entro i 5 mesi dalla nascita del figlio. Tale astensione non è soggetta a decurtazione dello stipendio.
6 giorni sembrano quasi irrisori e la normativa potrebbe apparire molto limitante nel tentativo di incentivare l’equilibrio genitoriale in azienda. In altri Paesi è già stato ampiamente raggiunto: pensiamo ai padri svedesi che hanno diritto a 90 giorni di congedo!
Nonostante la durata del congedo di paternità appaia esigua, la percentuale di padri che usufruiscono del diritto di congedo rimane bassa.
È un problema di normativa o di atteggiamento dei neo papà?
Credo si tratti in primis di un dilemma culturale che si esprime in una bassa adesione al congedo di paternità. Continua, nel 2020, ad aleggiare un retaggio culturale ispirato a un modello di famiglia ideale: la madre si fa carico della cura dei figli e il padre provvede al loro sostentamento economico.
Chiaramente, ci sono dei compiti che il padre non può svolgere, come la gravidanza, il parto o l’allattamento al seno. Questo non significa che la conseguenza diretta sia la totale esclusione del padre dall’accudimento dei figli e della madre dal contributo economico.
Per avviare un cambiamento, quindi, non basta aggiungere giorni a quelli già previsti dal congedo. Bisogna piuttosto rivoluzionare profondamente il concetto di genitorialità partendo dalla sua concezione culturale.
Ad ogni modo, la paternità, come la maternità, è un vero e proprio riconoscimento psicologico e sociale e come tale va valorizzato da parte delle aziende.
Non è facile. Le donne prossime alla maternità, ma anche gli uomini, trovano una certa resistenza nel clima aziendale. Non è raro il caso di colleghi che lamentino disuguaglianze riferendosi ai benefit concessi ai neopapà, come il congedo ad esempio.
Le policy aziendali a tutela dei padri possono essere viste come “favori eccessivi”. Alla base c’è lo stigma che vede il congedo di paternità “come una vacanza” dal momento in cui non è stato lui a partorire.
Anche i capi di questi padri-dipendenti possono costituire un ostacolo. Un uomo che decide di assentarsi per stare diversi mesi col proprio figlio viene considerato poco focalizzato sul lavoro e sarà la sua carriera a pagarne il conto.
Incentivando i padri, come fanno già le madri, a stare a casa con i figli è importante per:
- bilanciare l’equilibrio dei ruoli parentali
- valorizzare quindi la genitorialità.
Inoltre, i padri esaudirebbero il loro desiderio di partecipazione all’accudimento dei figli nei primi mesi di vita. Le madri sarebbero in parte alleggerite dagli oneri di cura e di lavori domestici.
Non solo: contribuendo alla gestione della famiglia, gli uomini potrebbero anche favorire indirettamente la donna in relazione all’ambito lavorativo, ad esempio aumentandone l’ingresso e la permanenza in azienda.
Il benesere delle persone al centro del welfare
In un’ottica di welfare, le aziende – con un focus sul business e uno sul benessere delle proprie risorse – dovrebbero parlare più spesso di genitorialità. Magari spronando la controparte maschile a stare a casa con i figli creando un equilibrio parentale.
Come farlo?
Ecco alcuni esempi:
- Capi che danno l’esempio: figure in posizione di leadership che trascorrono tempo con i figli e si prendono permessi per farlo possono fungere da role-model per i dipendenti, normalizzando un fenomeno che dovrebbe già esserlo;
- Valorizzare il work-life balance, rafforzandolo in particolar modo in momenti emotivamente salienti come la nascita di un figlio;
- Formare ed educare l’azienda al concetto di genitorialità, organizzare spazi di confronto e ascolto tra dipendenti neo-genitori e sensibilizzare alla tematica.
Stiamo assistendo a un’evoluzione dei costumi maschili e femminili in famiglia e in azienda. Questo implica necessariamente una ridefinizione identitaria che deve trovare accoglimento anche sul posto di lavoro.
Ciò che è assodato, è che il coinvolgimento di entrambi i genitori nella crescita dei figli è fondamentale per il benessere dell’intera famiglia e per la creazione di un nucleo che si fondi sulle pari opportunità, a maggior ragione se non trova opposizioni in ambito lavorativo.
E per l’omogenitorialità?
Risulta doveroso dire che in questo articolo, si è fatto riferimento al percorso di genitorialità più classico, il quale tuttavia oggi assume varie declinazioni.
Se la stessa normativa è applicabile anche nei casi di adozione o di affido, diversa è la questione per le coppie omosessuali che devono, in maniera del tutto assurda, attendere ancora per vedersi tutelate.
Ricordiamoci che per essere più simili al modello della Svezia non abbiamo bisogno di altre leggi, ma di cultura perché la genitorialità è una cosa seria.
[1] Vocabolo inglese per indicare il membro della famiglia incaricato di occuparsi dell’economia e del sostentamento della famiglia.
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