Il 22 Ottobre ho avuto il piacere di tenere un webinar per Bocconi Alumni su un tema a me molto caro e del quale mi occupo attivamente da molti anni: la diversity e l’inclusion nel raggiungimento di un equilibrio di genere all’interno delle aziende.
Che cosa sono la diversity e l’inclusion?
La diversità è un parola che contiene una vasta gamma di background tipici di una persona, ad esempio: la cittadinanza o etnia, le caratteristiche fisiche come colore della pelle, età, le abilità, sia fisiche che intellettuali, l’orientamento sessuale, l’identità di genere e le espressioni culturali.
L’inclusività è costituita da un insieme di comportamenti volti al supporto e alla valorizzazione di queste diversità. Si va dalla creazione di un ambiente dove ogni singolo si senta rispettato e responsabilizzato, alla piena partecipazione alle attività comuni.
La gestione delle diversità e inclusività consente di far convivere etica, benessere e produttività aziendale. Inoltre, gli effetti portano alla riduzione delle discriminazioni e contemporaneamente generano valore per le aziende.
Perché è importante parlarne? Perché nonostante la diversità sia un valore ormai assodato in qualsiasi settore, nei contesti aziendali esiste ancora qualche piccola e grande resistenza. Il lavoro da fare è ancora molto.
Nel mio speech ho parlato in particolare di identità di genere. Ho posto l’attenzione su questa domanda:
perché essere una donna che lavora – come me, come voi – costituisce una “diversità” rispetto alla norma?
Cosa ci dicono i dati?
I numeri – ahimè – parlano chiaro. Nel periodo pre-Covid il tasso di occupazione femminile in Italia era pari al 51%, contro il 65% della media OCSE.
Il gap di genere rimane in forte squilibrio per le donne rispetto alla controparte maschile. Nonostante il 70% dei laureati sia donna, solo piccole percentuali occupano posizioni di leadership (17,8% sono dirigenti, 15% sono CEO, 8 su 82 sono Rettori).
Inoltre, nella recessione causata dalla pandemia, la categoria più colpita è quella delle donne. E’ stato addirittura coniato il termine “she-cession”[1].
Per le donne, il lavoro domestico e di cura (soprattutto per le mamme) è fortemente aumentato ai tempi del Covid. Un surplus distribuito in modo fortemente asimmetrico nella coppia.
La mia esperienza e le molte testimonianze che ho accolto negli anni, mi hanno portata a individuare 5 miti che vanno sfatati.
5 credenze da demolire per comprendere meglio cosa significa Diversity & Inclusion
#1 – La maternità
Per quelle lavoratrici che diventeranno mamme, vengono spesso fatte delle assunzioni errate sulle loro priorità. Per evitare queste incomprensioni è importante che si instauri un dialogo esplicito sulle intenzioni della donna. È importante anche che le politiche di supporto (permessi, congedi parentali, orari flessibili) incoraggino entrambi i genitori ad usufruirne, magari con un leadership team che faccia da apripista.
#2 – La meritocrazia
Il focus deve essere posto sulle competenze. Conoscere e imparare a riconoscere il fatto che esistano dei bias che influenzano il modo in cui le persone giudicano il merito è un buon punto di partenza per prevenire discriminazioni meritocratiche.
Solamente un disegno conscio e basato su princìpi meritocratici delle norme aziendali potrà avere come outcome l’equità. Per farlo, l’azienda deve – o perlomeno dovrebbe – avere l’obiettivo di dare a tutti le stesse opportunità. Mentre l’uguaglianza (dà a tutti la stessa “cosa”) è facile da raggiungere, l’equità comporta delle scelte da parte di chi fornisce gli strumenti.
Bisogna ragionare sul fatto che se esistesse già una realtà equa e meritocratica, non ci troveremmo a parlare di squilibrio di genere!
#3 – L’ironia
Quante volte vi è capitato di sentirvi dire o di assistere a scene in cui la donna è stata bersaglio di battutine ironiche? Magari seguite da un “non si può dire niente, te la prendi troppo”? Sono sicura che in molte vi ritroverete, ad esempio, nella categoria di donne a cui è stato detto “ora che vai in maternità ti riposi”. O ancora “ah, ora che diventerai mamma ti perderemo del tutto”.
Ci sono poi occasioni in cui si viene etichettate per le qualità fisiche (bella, ben vestita) e non per le competenze e qualifiche.
Purtroppo, il privilegio è invisibile a chi ce l’ha, in questo caso la controparte maschile, che si sente “autorizzata” a battutine sconvenienti. È importante che vi sia un confronto attivo tra membri maschili e femminili per ragionare su che cosa potrebbe risultare inopportuno.
#4 – L’ape regina
Paradossalmente, quando capita che una donna si mostri decisa e si ponga in una posizione di potere, questa viene etichettata e giudicata come arrogante e manipolatoria. Magari a differenza di un uomo che nella stessa situazione verrebbe definito come ambizioso e carismatico, come dimostrano molti dilemmi di genere.
Questo meccanismo viene detto “likeability penalty”. Saperlo riconoscere può aiutare a non scivolare in questa semplificazione.
È importante che si presti attenzione alle parole che vengono utilizzate già con i bambini. Tendenzialmente, quando un bambino si fa valere lo si identifica come un “piccolo leader”. Se una bambina manifesta lo stesso comportamento allora è considerata “prepotente”.
Da questa considerazione è nato il movimento #banbossy. Un’iniziativa volta ad abolire l’utilizzo di questo termine nei confronti di bambine e donne che vogliono farsi valere.
#5 – Il tempo
Il momento in cui attivarsi nella prevenzione ed eliminazione di questi atteggiamenti non inclusivi è ora! Per ottenere dei risultati è necessario che non si deleghi ai posteri, che si procrastini, perché “tanto si risolve da solo col tempo”.
Bisogna cercare di riempire quel gap di genere ancora così presente nelle realtà aziendali. Iniziamo con l’eliminare le aspettative e forzature presenti già nel mondo dei bambini.
Presentiamo nuovi modelli culturali e di leadership che funzionino e che liberino uomini e donne dagli schemi e aspettative rigidi in cui sono cristallizzati da ormai – purtroppo – molto tempo.
[1] She (a indicare le donne) + recession